venerdì 20 gennaio 2012

il Primo Maggio in Italia

Maurizio ANTONIOLI
Vieni o Maggio
Le cronache del Primo Maggio di quegli anni (fine Ottocento-inizi Novecento) dimostrano che, se da un lato l’immagine della giornata di lotta, di sciopero, di protesta, di intesa rivoluzionaria era per gli anarchici – ma anche per i sindacalisti e i socialisti rivoluzionari – quanto mai nitida e continuamente rafforzata, sul piano politico, da una viva carica polemica nei confronti della «festa» rituale, dall’altro gli stessi erano spesso legati, nel linguaggio e nei comportamenti, a codici tipicamente festivi. Nei brevi resoconti che i corrispondenti, per lo più anonimi, inviavano, soprattutto dalle città di provincia e dai paesi, ai periodici libertari di diffusione nazionale ricorrevano espressioni «tipo» che denotavano indubbiamente povertà e conformismo lessicale, ma erano il sintomo di una adesione spontanea a determinati modelli. Il Primo Maggio, laddove c’era mobilitazione, fervore, animazione, veniva «solennemente» o «degnamente» o «splendidamente festeggiato» (talvolta «solennizzato») a Cagliari come a Siena, a Senigallia come a Scapezzano, a Viareggio come a Monterotondo, a Loreto, a Camerino, a Foggia, a S. Giovanni Valdarno, a Macerata, ad Imola, a Venezia, all’Aquila, ecc. Certo, il dato più spesso posto in rilievo era la maggiore o minore astensione dal lavoro «L’affermazione del 1° maggio è riuscita qui [a Terni] solenne per l’astensione dal lavoro anche di operai che negli anni scorsi hanno lavorato»), ma a parte alcune voci di dissenso «le feste le fanno i preti», «il 1° Maggio organizzato dai socialisti è stato festeggiato in quasi tutta la Versilia come venti o trenta anni fa si festeggiava la madonna del sale. Nella mattina una lunga processione ordinata religiosamente con stendardi, musiche e nuovi sacerdoti»), nella maggior parte dei casi la «bicchierata», «la passeggiata campestre», «la refezione popolare» veniva riferita senza animosità polemica, anzi con partecipazione. Nel 1901, a Messina, nel giardino di un operaio, Michele Mancuso, un comizio terminato con un ordine del giorno sul lavoro delle donne e dei fanciulli era accompagnato da canti, mandolini e fanfara. A Roma, nella medesima circostanza, in un «locale preso in affitto per l’occasione» «presso la storica piramide di Caio Castio», i circa 500 anarchici intervenuti (famiglie «anarchiche» con bambini) avevano «bevuto, mangiato, cantato e ballato [...] fino a notte», sparato «bengala rossi» ed erano stati distribuiti, insieme con i giornali e gli opuscoli di propaganda anarchica, libri e giocattoli ai bambini. Sempre a Roma, nel 1903, in un «locale campestre» fuori Porta Pia, Pietro Calcagno, ex coatto, teneva una conferenza sullo sciopero generale, insistendo sull’idea di «una maggiore coscienza necessaria fra gli operai organizzati, di un maggior spirito di sacrificio e di solidarietà», con contorno di inni anarchici e di lotteria. Alcuni anni dopo, questa volta in un locale all’arco di Costantino, i «soliti» 500 anarchici romani, oltre alla consueta «refezione», festeggiavano la nascita di tre bambini, Caserio Luzzi, Ribelle Picchi e Furio Mengasini. «Durante la festa il Concerto di Porta Pia suonò inni rivoluzionari. Fu anche estratta una lotteria con vari premi tra cui una rivoltella. Il simpatico ritrovo famigliare...».
Tratto da: Maurizio Antonioli, Vieni o Maggio, Milano, Angeli, 1988

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